Roberto Strano, eccellenza siciliana
Ci parla con modestia, Roberto Strano. L’abbiamo conosciuto a Milano, presso la sede di Canon Italia; ma al telefono, l’accento siciliano ce lo fa sentire ancora più vicino. Di mezzo non c’è uno “stretto” e nemmeno una penisola lunga e stretta, ma tanta fotografia: quella della quale lui si nutre per raccontare e raccontarsi.
Ne ha fatta di strada, Roberto. Si occupa di fotografia e reportage da più’ di 15 anni. Le sue opere appartengono a diversi collezionisti privati e musei. Durante la sua lunga carriera, ha vinto numerosi premi (anche il Premio Giovani Fotografi, organizzato da Canon Italia) ed è uno dei pochi fotografi italiani le cui foto sono state esposte alla Permanente presso il Museo di Modena “Franco Fontana”, assieme a quelle dei più accreditati autori internazionali come Bragalia, Man Ray, Cartier-Bresson, Capa, Sander, Ghirri, Toscani, Scianna, Franco Fontana, Fontcuberta, Hamilton, Doisneau, Berengo Gardin, Giacomelli, Avedon.
Non ha mai lasciato la sua Isola, Roberto, anche invitato dall’amico collega Ferdinando Scianna; così riesce a nutrirsi di quella cultura che ha forgiato molti artisti del secolo scorso. Lui lo fa con l’umiltà dei grandi, ma anche con l’abnegazione di chi è abituato al sacrificio. Pedalava in gioventù, Roberto: anche per agonismo; ed è abituato alla salita, a quella fatica che fa capire e guardare lontano, alla visione che si apre quando il fiato non sostiene più il battito e la luce diventa ombra. In quel momento, il nostro vuole il tempo, il rispetto che merita, quello spazio allungato dove la sua fotografia può inserirsi con maggiore facilità. Altro non desidera, lo Strano “maestro”, nemmeno un luogo oltre l’orizzonte. Il racconto fotografico nasce dal pensiero e può trovare le radici anche vicino casa, com’è stato per Doisneau e Giacomelli. La qualità per lui è importante, l’inattaccabilità del lavoro, la precisione, il rigore: tutte doti che vuole per sé, augurandole anche all’immagine in genere. Si tratta di un desiderio che porti al miglioramento, della fotografia e non solo: a quell’eccellenza che ha già raggiunto, dalla sua Sicilia per giunta.
D] Roberto, quando hai iniziato a fotografare?
R] A tredici anni, casualmente, in uno studio di bottega dove avevo chiesto di poter lavorare. Mi piaceva il disegno, allora, che spesso trasformavo in un’immagine e viceversa. All’Università ho studiato informatica, ma il mio sogno era diventare fotografo. Per un anno ho operato al fianco di Ciro Gaita, il celebre interprete napoletano di matrimoni. Nel ’97 sono passato alla moda, senza grandi entusiasmi. Il primo lavoro importante l’ho portato a termine a Caltagirone, presso una casa di riposo. Subito dopo mi sono avvicinato alla fotografia milanese. Nell’ambiente mi paragonavano a Giacomelli, Scianna mi stimava. “Per portare a termine un buon servizio, non occorre andare fuori dall’Italia”, diceva Ferdinando, che peraltro mi convinse a rimanere in Sicilia. Sempre nel ’97 ho aperto lo studio a Caltagirone: da allora, tra alti e bassi, riesco ad andare avanti. Del resto, oggi ci si muove meglio: tutto è più vicino.
D] Quando hai vinto il premio Giovani Fotografi? Quello organizzato da Canon?
R] Nel 2002. E’ stata una grande soddisfazione.
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D] La tua è stata passione per la fotografia?
R] Sì, assolutamente: è stato (ed è) grande amore. Il fotografo deve distinguersi per cultura, studio e applicazione. Io, la mattina, inizio alle sei e mezza; termino poi alle due di notte. Oltre a ciò, ci sono i Workshop (quanta soddisfazione) e i lavori che mi portano lontano. Non affronto nulla a mo’ di ripiego: anche gli impegni commerciali li porto avanti con passione.
D] La passione risulta importante?
R] Sì, assieme alla cultura. Occorre studiare gli autori, i pittori, la luce di Caravaggio. Io amo il fotogiornalismo, ma leggo anche di altri generi. Oggi si è persa l’abitudine di dedicare lo sguardo ai grandi. Poi c’è la stampa (fondamentale): anche lì occorre dedicare la propria motivazione. Oggi tutto appare apparentemente semplice. Se porti a termine un buon lavoro, ma lo completi con un editing e una stampa pessimi, butti via tutto. Da quando esiste il digitale, nonostante la qualità, si è sottovalutato il ruolo della carta. Salgado, da tempo, ci ammonisce in tal senso: “Tra quarant’anni la fotografia scomparirà e non esisteranno più gli archivi”.
D] La modernità ha preso una brutta china?
R] No, non credo. Il progresso porta sempre a cose buone. La stampa è diventata un problema anche per colpa di noi fotografi. Abbiamo delle responsabilità e, tra queste, quella di abituare gli utenti a riconoscere la qualità. Troppe cose passano solo dai social.
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D] Mi hai parlato di Workshop: ti piace tenerli? Esserne il docente?
R] Amo donarmi. Io non mi pongo come un professore, ma sullo stesso piano degli alunni. Divento così un facilitatore. Per me, il Workshop realizza un momento di verifica. Ne ho tenuti alcuni presso le favelas brasiliane e altri a New York. Io ricevo molto da chi frequenta i miei incontri: rappresentano degli scambi alla pari.
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D] Hai avuto degli elementi ispiratori?
R] Tantissimi, perché occorre emozionarsi di fronte alle fotografie degli altri. Posso citarti: Weegee (Arthur Fellig), Moyra Peralta, Elliott Erwitt, Gilles Caron, William Klein, Letizia Battaglia, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna. Quest’ultimo mi diceva: “Vedi, quando conobbi Leonardo Sciascia, capii che poteva offrirmi molto da un punto di vista culturale”. Questo per dire che esistono persone che riescono a darti molto, anche solo l’umiltà.
D] Altri modelli che ti hanno ispirato?
R] La lista sarebbe lunga. Fammi dire: René Burri e Paul Strand.
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D] Come hai curato la tua formazione?
R] Con tre parole magiche: passione, amore, sacrificio. Per vent’anni ho praticato il ciclismo a livello agonistico. Lì ho capito cosa fossero la dedizione, il rigore, la disciplina. I libri sono importanti, ma anche il tempo, che va trattato con rispetto. Io passo ore in Camera Oscura, dove tocco con mano l’unicità della stampa. Quando opero tra le bacinelle, mi concedo pochissime pause.
D] La fotografia ha bisogno di tempo?
R] Robert Doisneau diceva: “Un centesimo di secondo qui, un centesimo di secondo là; anche se li metti tutti in fila, rimangono solo un secondo, due, forse tre secondi, strappati all’eternità”. Il fotografo francese aveva ragione e noi abbiamo bisogno di poter aspettare, capire, comprendere, decidere quando dover scattare. Questo vuol dire ore, giorni, forse anni. Un tempo, per un servizio sull’Europeo ti davano una settimana. Josef Koudelka ha impiegato due decenni per portare a termine il lavoro sugli zingari.
D] Digitale o analogico?
R] Decisamente propendo per l’analogico. Col digitale ci lavoro. La pellicola però mi offre un approccio diverso, sin dalla composizione (oggi un po’ bistrattata). Le nuove tecnologie le uso in ambito commerciale, dove però la pellicola arriva a un novanta per cento di utilizzo. Oggi abbiamo troppi ISO a disposizione, a scapito di una “pastosità” non più percepibile. Pensa, alle volte scatto con le “usa & getta”; anche lì riconosco tanto fascino. Attenzione: il digitale è comodo, veloce; ma la pellicola ti offre l’elogio dell’imperfezione. Pensa ai fotografi degli anni ’30: usavano dei “fondi di bottiglia”, ma quante cose meravigliose ci hanno lasciato.
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D] Che apparecchiature utilizzi?
R] Non sono ossessionato dallo strumento, ma la mia attrezzatura analogica comprende svariate fotocamere, anche di medio formato. Circa il digitale, opero con un’EOS 5D Mark II.
D] C’è un’ottica che usi preferenzialmente?
R] Il 35 mm. Non mi piacciono gli zoom. Anche se ne riconosco la comodità (ottimo il 24 – 105), arrivano a limitarti. Col grandangolo sei dentro la scena. Questa è la ragione per la quale al novanta per cento scatto con 28 o 35 mm. Sono le ottiche di chi racconta, e il fotografo deve poter narrare.
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D] Fotograficamente come ti definiresti?
R] Qualcuno mi ha detto che sono un ottimo ritrattista. Io non mi riconosco in quel giudizio. Faccio reportage, che poi significa anche ritratto ambientato.
D] Qual è, a tuo avviso, la qualità più importante che un fotografo come te deve possedere?
R] L’umiltà, assieme alla capacità di saper ascoltare, parlando poco. Purtroppo oggi regna l’individualità e nessuno cerca di comprendere chi ha di fronte.
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D] C’è, tra le tue, una fotografia alla quale sei particolarmente affezionato?
R] Sì, anche se poi credo che un fotografo ami tutte le immagini della sua carriera, quasi come dei figli. Sono molto affezionato al lavoro “De Senectude”. Ero giovane: l’elettronica e l’informatica ancora non mi avevano contaminato. Tengo nel cuore anche i ritratti dei fotografi: sono persone che conosco, tutte fonte di ricchezza.
D] Tra i ritratti dei fotografi, quale preferisci?
R] Quello che vede Scianna assieme all’ex direttrice di Vogue Francia. Ferdinando Scianna.
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D] La Sicilia ti ha offerto qualcosa che abbia arricchito la tua fotografia?
R] Senti spesso dire dagli isolani: “Qua non c’è nulla”. E poi: “Se fossi vissuto fuori”. La Sicilia invece ha dato i natali a grandi fotografi (Scianna, Leone e via dicendo).
D] Perché, a tuo avviso?
R] Siamo abituati a una luce forte, e alle ombre. E poi, qui da noi c’è meno lavoro, così sfruttiamo tutte le opportunità che possano riscattarci. Scianna mi ha detto spesso: “La sicilianità te la porti ovunque”. Io credo che la Sicilia non tolga nulla, anzi possa offrire molto: come ha fatto con me.
D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?
R] Sì, nel cassetto c’è un lavoro sugli incidenti stradali, che porto avanti da vent’anni. Forse è il progetto più autorevole che abbia mai iniziato. Prima o poi mi deciderò a farlo uscire, come molti colleghi mi stanno suggerendo di fare (Scianna in testa).
D] Il tuo rapporto con i libri?
R] Ne ho tanti, tantissimi: mai abbastanza. Ne compro alcuni nei quali c’è molto testo, dei saggi praticamente: mi aiutano a riflettere.
D] Ne hai pubblicati alcuni?
R] Due, tra i quali uno con “Gente di Fotografia”. Il mio debutto editoriale è avvenuto con “Guardami Dentro”, con le prefazioni di Ferdinando Scianna e Pippo Pappalardo (Polyorama Edizioni, 2007). Ne usciranno altrettanti: uno sui fotografi, un altro sulla mia città, su chiave internazionale.
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D] Potessi scegliere, quale fotografia scatteresti domani?
R] Dei ritratti, sicuramente. Vorrei fotografare Josef Koudelka. Mi è sempre piaciuto dedicare del tempo al ritratto, ma negli ultimi tempi ancora di più. C’è l’uomo da raccontare, il che per me è fondamentale.
D] E’ il momento degli auguri. Te ne puoi fare uno da solo: cosa ti dici?
R] La speranza è sempre quella di produrre un’ottima immagine, poi c’è quel libro che mi piacerebbe venisse pubblicato il prossimo anno. Sono due desideri? Sì? Allora facciamo così: vorrei produrre una buona fotografia, che vada a finire in un libro.
D] Credo che da parte tua sia necessario anche un augurio dedicato alla fotografia …
R] Spero tanto che il livello culturale s’innalzi di molto. Tutti noi fotografi dovremmo essere più responsabili, oltre che maggiormente umili e critici. Rappresenterebbe un grande giovamento, per la fotografia tutta.
Canon Italia